06-05-2018
La ricostruzione dopo il sisma del Friuli a confronto con quella dell'Irpinia
«Il Friuli ringrazia e non dimentica»: con queste parole i media del tempo riportavano i ringraziamenti della popolazione friulana per gli aiuti ricevuti. È infatti il 6 maggio di quarantadue anni fa, nel 1976, che si è consumata una tra le più grandi tragedie del Friuli-Venezia Giulia. Alle ore 21:00 un sisma di magnitudo 6.5 della scala Richter ha colpito la regione italiana e i territori circostanti, causando la morte di 990 persone. I danni furono poi amplificati da due ulteriori scosse nel settembre di quello stesso anno, con un totale di 45mila abitanti senza dimora.
Il terremoto del Friuli viene tuttavia ricordato non solo per essere stato un evento catastrofico. Il disastro contribuì a raggiungere risultati positivi, come ad esempio il consolidamento della protezione civile. Ma non solo. Fu esempio anche di efficienza amministrativa. A soli due giorni dal dramma, l'8 maggio del 1976, il consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia stanziò con effetto immediato 10 milioni di lire per soccorsi e progetti di ricostruzione. Oltre 40mila friulani passarono l'inverno da sfollati, ospitati da strutture presso la costa adriatica, per poi tornare nei propri paesi. Già nel 1980, la maggior parte di essi trovò alloggio nei pre-frabbricati costruiti appositamente. In totale, la ricostruzione durò 10 anni: interi paesi ripresero vita e furono totalmente ricreati, considerato che ben 45 comuni erano stati quasi interamente rasi al suolo dalle scosse — come Gemona, Venzone e Buia —. Nell'aprile del 1988, sul Corriere della Sera si legge: «Gruppi di turisti fotografano il Duomo e passeggiano sotto i portici di via Bini. Duomo e portici che sembrano così com'erano prima del 6 maggio 1976». Dalle parole del giornalista Luigi Offeddu si capisce come il dramma era stato superato con successo.
Ma per ogni successo che viene ricordato, c'è sempre l'esempio di un fallimento a fare da confronto. E in questo caso viene subito in mente il terremoto che colpì l'Irpinia nel 1980. Il 23 novembre una scossa di decimo grado della scala Mercalli causò, tra la Campania centrale e la Basilicata centro-settentrionale, la morte di oltre duemila persone. Il dramma fu aggravato dalla mancanza tempestiva di soccorsi. Non solo le infrastrutture dell'entroterra ritardarono l'arrivo degli aiuti, ma fu sopratutto la disorganizzazione a creare i ritardi maggiori. Il primo a denunciare tali negligenze fu proprio il Presidente della Repubblica del tempo Sandro Pertini, che in un'edizione straordinaria del TG2 del 26 novembre disse: «Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi».
Gli aiuti, poi, arrivarono anche dalla comunità internazionale: non solo militari e personale specializzato in questo genere di soccorsi, ma anche contributi per la ricostruzione dei comuni più colpiti. Ed è proprio la ricostruzione l'altro aspetto fallimentare della vicenda. Un processo lunghissimo e costosissimo che dopo una commissione di inchiesta parlamentare nel 1989, successive inchieste giornalistiche — come quella di Panorama del 1992 — che, assieme al processo di industrializzazione che ha riguardato tre regioni (Puglia, Campania e Basilicata), è costata 29 miliardi di euro (contabilizzazione effettuata nel 2012 da una commissione insediata presso il Ministero delle Infrastrutture). Trentotto anni dopo la tragedia, le prospettive di sviluppo dell'Irpinia rimangono ancora tuttavia limitate.
di Eleonora Savona
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